Street food, l’altra faccia di un mondo che è già fra noi

Street food, l’altra faccia di un mondo che è già fra noi

di Enrico Villastrreetfood

A Roma una recente manifestazione della Coldiretti ha sottolineato: kebab e sushi acquistati per strada sviliscono la nostra cultura alimentare tradizionale, danneggiando le nostre produzioni. E ha proseguito: i cibi street food debbono essere impediti, sicché le licenze di vendita non debbono essere più accordate a quanti propongono “alimenti etnici“. Tuttavia, va solo annotato che gli street food (anche i film americani lo documentano da anni) sono stati importati dagli Stati Uniti, da New York e dalle vie più famose parigine e londinesi. Se ci fosse una controindicazione, sarebbe soltanto sanitaria: il banchetto di mercato rionale o i furgoni mobili che si spostano da un punto all’altro della città non sono sempre in grado di garantire Kebab a base di carne indenne, o sushi crudo che, attraverso il pesce non controllato, potrebbero diffondere malattie. In un dispaccio dell’11 giugno l’Ansa, riportata da TGCOM 24 (Mediaset) ha intitolato “Salviamo la cucina della nostra tradizione“. L’appello, diventato “politico”, non riguarda solamente il Ministero delle Politiche agricole bensì il Ministero della Sanità nonché gli assessorati regionali e comunali i quali agiscono attraverso gli uffici di igiene .

Ma una “messa a punto” indiretta alla guerra al Kebab e agli altri cibi etnici venduti per le strade dei centri urbani viene dalle ricerche di marketing e di sociologia, dalle relazioni periodiche della Caritas, dagli sudi dell’Inran (Istituto nazionale per l’alimentazione e la nutrizione) dal dipartimento di Biologia della Università ” La Sapienza” di Roma, dall’Istituto San Gallicano di Roma. La nostra nutrizione tradizionale si incrocia sempre più strettamente con l’alimentazione etnica portata dai migranti anche culturalmente e sta diventando una “incancellabile” prova dell’integrazione di quanti approdano in Italia e in Europa dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa dell’Est. La stessa documentazione attendibile che si occupa dell’intreccio “territorio locale/migranti” evidenzia: ormai due italiani su tre, specialmente con un grado culturale medio/elevato, acquistano con gradimento i cibi etnici (vedi i cinesi e i pakistani) di provenienza street food. Ormai da uno/due anni, inoltre, la grande distribuzione dipendente da multinazionali, impernia le campagne su alimenti etnici, di sovente offrendo gli stessi alimenti a pezzi stracciati e contornati da sapienti scenografie e didascalie nutrizionali. I russi, clienti turistici importanti in grande aumento, cercano gli alimenti street food all’87% circa, per cui arancini made in Italy, arrosticini abruzzesi e altro che viene dalla Pianura Padana, sono messi in un canto a vantaggio del couscous, dei ravioli al vapore, del sarmale ( cavolo con riso e carne) talvolta anche preparati industrialmente. Sopravvive solo il riso, però alla cantonese (nei tanti ristoranti o nei banchetti mercatali che hanno invaso le vie delle città italiane, di pregio per qualità e a prezzi assolutamente concorrenziali). A lungo andare questo “fenomeno strisciante” di “contaminazione alimentare” provocato dall’integrazione dei migranti finisce di danneggiare i 4886 prodotti alimentari della tradizione italiana nonché le 282 specialità dop/igp riconosciute dalla Unione Europea. In ogni caso – avvertono le inchieste sugli alimenti etnici con lo scopo di stabilire cataloghi nutrizionali anche con significato sanitario che riguardano i nostri ospiti a carico della nostra sanità nazionale e regionale – la diffusione di street food sta anche aumentando la domanda di ingredienti di base e di verdure. E, così, l’orticoltura nazionale si sta arricchendo di cavoli coltivati e di spezie vegetali “culturalmente” suggeriti dall’Asia e dall’ Europa dell’Est. Lo stesso, anni fa, era accaduto per il kiwi australiano e neozelandese, adesso coltivato ampiamente in Piemonte e in Italia.

L’Inran, la “Sapienza” di Roma e il romano Istituto San Gallicano, anche con il supporto della Caritas, per cogliere l’importanza sociologica degli alimenti etnici e dello street foood descrivono il cambiamento socio-demografico avvenuto dal 1970 ad oggi nelle nostre città e sui nostri territori. Mezzo secolo fa, i migranti stabilizzati in genere per ricongiunzione familiare erano 144.000 (dato Caritas) con la prevalenza di ospiti dall’Est Europa, oggi più di 3.000.000 e “si prevede che vadano aumentando esponenzialmente anche tenendo conto dei nuovi nati da cittadini stranieri“. Da un punto di vista alimentare e delle produzioni di cibo cui noi non siamo abituati lo scenario gastronomico, secondo i ricercatori, potrebbe essere questo: cucina orientale e latino americana; cucina africana; cucina Est Europea e Albania. Le “banche dati” in preparazione da parte dell’Inran ne terranno conto, anche forse influenzando sindaci e assessori per le autorizzazioni di street food. Questo il commento dello studio dell’ Inran e di altri in preparazione di un Progetto alimentare europeo: i movimenti migratori sono diventati un fenomeno così massiccio e complesso da rendere indispensabile studiarlo (compreso lo street food) politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente. Lo stesso fenomeno, che allarma per la presunta “aggressioni” nei nostri centri abitati da parte di Kebab e coscous vegetale e con carne, va considerato “una tra le più significative manifestazioni ed espressioni della dimensione internazionale del mondo odierno”.

 

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