Senza gli alpeggi risaia in pericolo

Senza gli alpeggi risaia in pericolo

di Enrico Villa

fotoLa montagna, un tempo in estate regno assoluto delle malghe e degli alpeggi, occupa il 39% della superficie piemontese contro il 30% della pianura dove avviene la coltivazione del riso e delle altre derrate agricole, mentre la collina detiene il 30%. Anche in Lombardia, che incombe sulla pianura padana, è così. E le identiche proporzioni esistono nel Triveneto, in Italia regioni fondamentali per le Alpi Orientali. Le statistiche, prospettate da numerosi studi e ricerche di diverse Università del nostro Paese, evidenziano un’altra realtà: in Lombardia, sul totale italiano, il 46% degli alpeggi corrispondenti a 642 unità è nella regione un record, con una diminuzione al 40% in Piemonte e in Valle d’ Aosta e ancora meno nelle alpi venete dove, secondo recenti rilievi, gli alpeggi assommerebbero a non più di 300. Da sempre, dalla loro gestione con importanti riflessi economici sul pil agroalimentare, dipende la stabilità idrogeologiche della pianura dove con la nuova politica agricola comunitaria, in avvio quest’anno e nel 2015, dovrebbe essere garantita la stabilità e la redditività delle grandi coltivazioni della pianura padana: grano, riso, mais, per la collina ma anche per specifiche zone pianeggianti la viticoltura.
Ma negli ultimi anni la monticazione zootecnica dal piano ai monti nella stagione estiva, gli alpeggi e le malghe che consentono la produzione di formaggi di eccellenza, sono sottoposti ad un lento processo di decadimento. Pertanto, ne consegue l’abbandono di vaste aree sia delle Alpi Occidentali e Orientali con danno evidente per la biodiversità, per il mantenimento in equilibrio del suolo e per la regimazione delle acque che, ad altitudine fra i 600 e i 2.500 metri, condizionano sempre più la pianura con improvvise “valanghe d’acqua” e altri gravi fenomeni meteorici e geologici. Nelle scorse settimane, l’Associazione Regionale Margari di cui è presidente Massimo Tribolo, i produttori di Nostrale d’Alpi e le associazioni dei casari hanno lanciato l’allarme: si rischia l’estinzione delle malghe alpine che in Piemonte riguardano il Cuneese, il Novarese, l’Alessandrino, il Biellese, il Vercellese. E di questo fondato timore si sono fatte interpreti le Camere di Commercio di Cuneo e di Trento, prospettando il pericolo riassunto dal quotidiano L’Adige in questi termini: la tendenza alla applicazione distorsiva delle nuova Pac dove, mettendo all’asta i pascoli d’alpeggio, ormai al 55/60% di proprietà dei comuni montani, “si punta a privilegiare l’offerta più alta a scapito della professionalità del gestore e del legame del territorio”. Non solo. Sull’allarme e sulle sue possibili conseguenze territoriali ed economiche, per iniziativa della Coltivatori Diretti di Cuneo, il 28 maggio scorso a Saluzzo si è svolto un convegno importante presente il vice ministro delle politiche agricole Andrea Olivero. In questa sede i professori dell’Università di Torino Andrea Cavallero e Bruno Giau sono stati chiarissimi: l’uomo gestore degli alpeggi e delle malghe è importantissimo per l’intero territorio: montano, forestale, di pianura. Inoltre la Pac, anche attraverso i piani di sviluppo rurale 2014/2020, deve favorire gli interventi strutturali e non quelli a pioggia che, in genere, hanno caratterizzato gli interventi regionali e provinciali.
Tuttavia, già il 13 e 14 settembre 2013 a Grugliasco e a Valgrisenche (Aosta) era stato altrettanto chiaro in una sua lunga relazione Luigi Ferrero della Regione Piemonte e dell’Università di Torino: tenendo conto della realtà anche riproposta nella attuale stagione 2014 degli alpeggi, quale futuro per la zootecnia di montagna, in relazione alla nuova Pac e alla presunta crisi di malghe, alpeggi, produzioni e stabilità dei suoli? Alcune cifre destano apprensione. Il patrimonio bovino è diminuito come, del resto, quello ovicaprino, e non così nella vicina Svizzera dove la stabilità pare assoluta. Anche nella Confederazione è però coperto solo il 75% del fabbisogno carneo, mentre in Piemonte solo del 50%. Con la possibile grande crisi degli alpeggi, che hanno alle spalle una storia millenaria, la percentuale rischia di diminuire ancora anche dovuta all’aumento della rinuncia a pascoli, conseguenza di tutti i dissesti idrogeologici e territoriali richiamati.

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