Perché il riso straniero sfugge alla black list dei cibi contaminati

Perché il riso straniero sfugge alla black list dei cibi contaminati

di Enrico Villa

Il riso orientale, che non rispetta le regole osservate obbligatoriamente in Occidente, è in aumento vistoso e continua a non pagare il dazio comunitario. Dal settembre 2015 al 5 maggio 2016, le importazioni dai paesi in via di sviluppo dell’Asia sono aumentate del 27%. E c’è di più: dalla Cambogia, il riso “da importazione” ha presentato a dazio zero una impennata del 41%. E dal Myammar, l’incremento con le stesse modalità è per adesso del 14% sul totale. Ma essendo questa la situazione generale, la varietà Basmati, con offerte speciali a prezzi stracciati per i consumatori distratti, hanno invaso i supermarket di multinazionali tedesche e francesi. Per parare il colpo dalla Ue “matrigna” Mario Francese, presidente dell’Airi (Associazione Industrie Risiere Italiane) al momento delle semine ha fatto un appello: investite in più riso indica. Cosicchè nel prossimo autunno si arresterebbe l’alluvione di cereale che viene da lontano e altera, in Europa, i normali corsi di mercato.

Dal Sudest asiatico

Il “polso” sull’import dalla Cambogia è richiamato ufficialmente nel suo sito Internet dell’Ente Risi sotto il titolo “Aggiornamento importazioni di PMA – aprile 2016″ con il corredo di un grafico eloquente. Questo riso, che i cuochi a “quattro stelle” consigliano per i primi piatti alla moda, è ottenuto con prodotti di base in tutto il mondo sospettati di essere cancerogeni. Però questo stesso riso non figura nel lungo elenco dei cibi contaminati cui la stampa di informazione ha fatto ampiamente riferimento nello scorso mese di aprile. Eccoli, con accanto la percentuale di diffusione “contaminante” in Europa: broccoli cinesi (92%), prezzemolo vietnamita (78%), basilico indiano (60%), melograno egiziano (33%), peperoncino thailandese (18%), menta marocchina (15%), meloni/cocomeri domenicani (14%), fragole egiziane (11%), piselli del Kenia (10%), arance egiziane (5%). Tutti questi prodotti, di grande moda in cucina e che sono utilizzati nelle ricette, giungono in Europa senza etichetta di provenienza, come osserva Roberto Moncalco, presidente della Coldiretti nazionale. Forse per una svista, manca il “riso contaminato” che, in tanti paesi del mondo, viene trattato con il glisofate fitofarmaco totale, considerato con molto sospetto non solo nella UE bensì – a giudicare dai provvedimenti e dalle notizie internazionali – in paesi asiatici e africani che intrattengono rapporti stretti con la ricerca scientifica nonché con l’economia europee. Un’altra contraddizione, a proposito della pizza, piatto nazionale italiano, che si aggiunge alle contaminazioni appena elencate. Recentemente anche personaggi istituzionali e religiosi hanno apposto la loro firma sotto l’elenco dei sottoscrittori che chiedono all’Unesco la trasformazione della pizza cibo mondiale. Poi diversi esperti di alimentazione e nutrizione i sono soffermati sugli ingredienti di base: grano e mozzarelle. Almeno la metà del grano è “di importazione” senza alcuna garanzia sulla contaminazione. E lo stesso accadrebbe per le cagliate e le mozzarelle che per 2/3 arrivano dai paesi dell’est (ex Unione Sovietica), in particolare dalla Lituania. Di conseguenza, buona parte delle pizze che ordiniamo nei locali sono sospette “di contaminazione“. Anche per gli ingredienti ci vorrebbe l’etichetta e la documentazione di provenienza, in modo di mettere in condizione i consumatori, ma anche i Nas di effettuare un controllo efficace.

Troppa confusione sui dati

Soffermandosi sullo “scenario delle contaminazioni“, in effetti “strisciante sulla nostra salute“, la confusione sui dati sembra notevole. Le pubblicazioni di categoria richiamano percentuali che allarmano, dando per scontato “che la quasi totalità( 92%) dei campioni (acquisti, ndr) risultano irregolari per la presenza di residui chimici e sono un prodotto alimentare meno sicuro“. Ad essi, a parte l’elenco riportato, si aggiungono gli oli di ulivo extravergine importati dal Marocco o i concentrati di pomodoro, in arrivo a cisterne dalla Cina. A maggior ragione, secondo le categorie agricole che si ritengono fortemente danneggiate, dovrebbero essere istituite le “etichette di provenienza, in particolare a tutela dei consumatori e di produttori iniziali.

L’Efsa di Parma

Di diverso avviso è l’EFSA di Parma (European Food Safety Autority). Essa, nei suoi documenti ufficiali che richiamano il rapporto ugualmente steso nel 2015, precisa che “oltre il 97% degli alimenti contiene residui di pesticidi nei limiti di legge“, con controlli e esami che riguardano scienziati e ricercatori di numerosi paesi della Ue o a livello internazionale. Sempre stando alla documentazione, gli uomini e le donne dell’Efsa, con l’aquisizione di 80.967 campioni sono andati alla caccia di 685 pesticidi che turbano il sonno degli europei. E il risultato degli accertamenti sarebbe stato questo: il 97,4% dei campioni rientrava nei limiti di legge, il 54,6% era privo di residui rilevabili, l’1,% superava i limiti di legge. “Secondo le conclusioni dell’Autorità – prosegue l’ Efta – è improbabile che la presenza di residui di pesticidi negli alimenti abbia un effetto a lungo termine sulla salute dei consumatori. Per quanto concerne l’esposizione a breve termine, il rischio per i cittadini europei è stato giudicato basso“. Questo vale per la Ue, ma è anche così per i cibi che provengono dai paesi PMA?image_resize

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