La sete d’acqua non si placa con gli stati di calamità come fossero un condono

di Gianfranco Quaglia

“La solita strada, bianca come il sale, il grano da crescere, i campi da arare. Guardare ogni giorno se piove o c’è il sole, per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta e andare via…”. E’ l’attacco del brano Ciao amore, ciao” che Luigi Tenco esattamente 50 anni fa interpretò al Festival di Sanremo poco prima di togliersi la vita. Una tragedia rimasta nella storia della canzone italiana, e non solo, che colpì tutti lasciando a distanza di anni dei chiaroscuri ancora da esplorare. Ma noi vogliamo occuparci dell’attualità di quelle parole, che sottolineano tutta l’aleatorietà e la precarietà di un mondo, quello dell’agricoltura, sempre subordinato agli eventi climatici. Ce ne stiamo accorgendo in questa estate, in cui le parole siccità, mancanza d’acqua, canicola, arsura e incendi ci accompagnano da settimane come un mantra. E a queste seguono, immancabilmente, dichiarazioni di interventi, promesse, piani strategici affinché non si ripeta più. Da crederci, oppure fra qualche mese, quando i primi spifferi cominceranno ad alitare tutto sarà dimenticato e riposto nel cassetto? Il dubbio è fondato e non è solo nostro. Dieci regioni hanno chiesto lo stato di calamità, ebbene che cosa accadrà dopo nessuno lo sa. Massimo Gargano, direttore generale di Anbi  (l’associazione nazionale dei conorzi per la gestione e la tutela del territortio e delle acque irrigue) teme che la vox clamans ancora una volta rimanga nel deserto: “L’atteggiamento dominante per troppi anni è stato e rischia di continuare a essere quello di risolvere il problema, dichiarando appunto gli stati di calamità naturale, per quanto oggettivamente doverosi. E’ un po’ come fare un condono edilizio per combattere l’abusivismo. In questo modo si sposta il problema, ma non lo si risolve. Bisogna agire, ma ci si nasconde dietro la mancanza di risorse, quando in realtà il problema è burocratico e culturale, ma non possiamo restare ostaggio, perché ritardano il Paese. Non possiamo cadere nelle liturgie che troppo spesso hanno pregiudicato l’agire. C’è la necessità di un cambio di passo radicale”.

La soluzione è semplice e l’abbiamo già ripetuta: basta con il criminalizzare l’agricoltura. Occorre invece migliorare l’efficienza della rete idropotabile e aumentare la capacità di trattenere le acque di pioggia attraverso l’adozione di un piano nazionale degli invasi. “Bacini medio-piccoli – precisa Gargano – la cui realizzazione non può prescindere da una diffusa consapevolezza dell’opinione pubblica sulla loro utilità come riserva idrica, ma anche come vitalizzatore ambientale e bacini di espansione contro le alluvioni”.

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