Al candidato far sapere che alla lettera A si può scrivere agricoltura

di Gianfranco Quaglia

La fabbrica delle promesse della campagna elettorale sta toccando tutti i temi più scottanti e “di pancia”, quelli che vanno dai migranti alla sicurezza, dalle pensioni alle soluzioni per l’occupazione, alla decontribuzione, alla flat tax e alla gestione della prostituzione e a Rimborsopoli. Di tutto e di più. Ma il promessificio ha dimenticato alcuni aspetti e intere categorie, di cui non si parla assolutamente né sui giornali né sui social e neppure nei talk show televisivi: l’agricoltura. Non un partito, non un candidato che sin qui – tranne poche isolate eccezioni – abbia concesso un cenno del suo tempo al settore primario che pure rappresenta un punto di riferimento del Made in Italy, anzi l’italianità stessa da difendere, visto e considerato che il cibo è e rimarrà un punto fondamentale del nostro vivere e della nostra salute.

Soltanto qualche “spot”, del tipo “basta con l’Europa che fa arrivare olio dalla Tunisia e riso dal Sudest asiatico”. Mai un progetto e un programma ragionato, che tenga conto degli effetti della globalizzazione, di come si possa agire per gestirla senza farsi tropo male. I pochi politici e candidati che si avventurano in queste tematiche lo fanno semplicemente per dichiarare il loro “no”.

Il mondo dei campi, dalla risaia della Pianura Padana alle colline della Toscana sino agli aranceti della Sicilia, si aspettava qualcosa in più: che sull’agenda di ogni candidato, alla lettera A corrispondesse la parola agricoltura e non apatia, l’indifferenza nei confronti di un mondo abituato a sopportare. Che spiegasse, il candidato, come mai dalla risaia alla tavola il prezzo del riso aumenta del 500% e che il produttore deve venderne quattro chili per pagarsi un caffè.

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