Risaie in asciutta, una storia già vista nell’Ottocento

Risaie in asciutta, una storia già vista nell’Ottocento

di Enrico Villa

Giuseppe Nuvolone Pergamo, già direttore e poi presidente dell’Orto Botanico della Crocetta di Torino, negli anni 1805/1806 fu anche presidente della Società Agraria, istituita nel 1875 da Vittorio Emanuele III di Savoia, re di Sardegna. Il sovrano, alquanto conservatore, cedette però allo “spirito illuministico”. E fondò quella che successivamente sarebbe diventata l’Accademia di Agricoltura, adesso presieduta da Pietro Piccarolo ordinario emerito di meccanica agraria alla Università di Torino (ramo agrario che nel 1936, per impulso della stessa Società Agraria, istituì prima la Facoltà di Agraria, quindi negli anni Ottanta del Novecento la Facoltà di Scienze Forestali).

Come specifica il rescritto di Vittorio Emanuele III, la Società Agraria di Torino era stata costituita per “promuvere a pubblico vantaggio la coltivazione dei terreni situati principalmente nei felici domini di S.M. secondo le regole opportune e convenevoli alla loro stessa natura”. Dal 1843 fu anche socio della Accademia Cavour che nel 1853 sarebbe stato determinante per la Fondazione della Associazione Irrigazione Ovest Sesia e che a lui fu dedicato l’omonimo canale costruito in appena tre anni, dal 1863 al 1866. La storia di quasi un secolo e mezzo dell’Accademia è costellata di soci illustri distintisi nelle scienze fisico-chimiche nonché sociali e di soci emeriti come Antonio Finassi, ricercatore del CNR di meccanica agraria. Fu proprio Finassi 20 anni fa a ricordare Nuvolone Pergamo e le sue relazioni sul “riso in asciutta”, in un momento nel quale si teorizzava la “coltivazione a secco” del riso come in Estremo Oriente, dovuta a periodi acuti di siccità, un grave incubo per le campagne italiane ed europee come quello attraversato in queste settimane. Allora, come adesso, fu chiamata in causa la coltivazione del riso che necessita di una coltre d’acqua per difendersi dagli sbalzi di temperatura. E anche adesso, pubblicazioni di prestigio nazionale incolpano la risicoltura di sottrarre troppa acqua: secondo la valutazione, circa quattro litri di acqua per produrre un chilogrammo di cereale. Contro questa presunta “credenza”, con un comunicato del primo agosto ha preso posizione tra gli altri la Coldiretti di Vercelli e di Biella. E per l’ennesima volta il suo presidente Paolo Dellarole, esperto risicoltore di Santhià, ha spiegato che la coltivazione del riso non consuma più acqua e che la risoluzione del problema sostenuto richiede finalmente “una programmazione idrica e la costruzione di nuovi invasi” come, ad esempio, ha fatto la Spagna. In mancanza, sarà quasi impossibile contrastare la siccità che il mare dalle foci dei fiumi spinge acqua salata nei campi, letteralmente “bruciando” i raccolti della risaia. I fenomeni cui si riferisce Paolo Dellarole si manifestano sempre più dall’ultimo decennio e riguardano l’85% della agricoltura nazionale.

La polemica sul presunto spreco di acqua a causa del riso, ha rammentato la coltivazione del cereale cui nel 1802 (prima dei grandi eventi relativi alla storia della risicoltura) si occuparono Giuseppe Nuvolone Pergamo, e l’Accademia di Agricoltura di Torino. Stando alle date e ai riferimenti, era dalla metà circa del 1700 che le “classi dirigenti” del tempo (prima i Savoia, poi l’amministrazione napoleonica e le amministrazioni civiche) si occupavano di coltivazioni del riso nonché della sua presunta pericolosità sulla salute delle popolazioni a causa dell’acqua stagnante. Nell’ultimo ventennio, la ricerca si occupa di “coltivazione secca” del riso, allo scopo di risparmiare acqua gravata di canoni consistenti, puntando anche alla riduzione dei fitofarmaci, anche accusati in risaia. Nel XVIII e nel XIX secolo le preoccupazioni erano ovviamente diverse: reperimento dell’acqua a sufficienza come nella piana vercellese e novarese sarebbe accaduto prima del Canale Cavour; e abolendo “la coltivazione in acqua” la lotta contro le paludi e gli acquitrini definiti “putridi” dallo stesso Nuvolone Pergamo.

Già nel 1500 si componevano poemi dedicati alla coltivazione del riso, in Occidente base fondamentale l’acqua. E fra le testimonianze più convincenti, il poema sulla coltivazione del riso del veronese Giovanni Battista Spolverini (1695/1762) dedicato a Carlo Quinto e alla sua vedova Elisabetta Farnese. Il poema fu editato in prima edizione nel 1758. Già allora nella prefazione si evidenziava, come ora, il valore europeo della risicoltura italiana. E nei quattro capitoli del poema si insiste su due aspetti: l’acqua sempre raccordata alla terra e la importanza di questi fiumi: Adige, Oglio, Ticino, Brenta…Ma più di tutti Giuseppe Nuvolone Pergamo insistette sul risparmio d’acqua per contrastare le paludi/risaie accusate di essere “mefitiche”. Eravamo nel 1802, e nella sua relazione alla Società di Agricoltura l’agronomo Nuvolone Pergamo lodò la coltivazione “a secco” dei cinesi e di una varietà particolare di riso utilizzata in Cocincina, richiamando anche aspetti oggi non più attuali della risicoltura nelle province di Torino, Cuneo, Asti, in particolare nell’area vicino all’Abbazia di Novalesa. Però secondo la Coltivazione del riso senza la permanenza costante dell’acqua come in Oriente, per Nuvolone Pergamo che anche cita prove sperimentali, è pressoché impossibile la coltivazione. Ai primi dell’Ottocento l’agronomo Nuvolone Pergamo diventa, in assoluto, perentorio: in Italia il riso nasce, cresce, e frutta mediante una discreta irrigazione“.

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