Costretti a importare per colmare i vuoti del Made in Italy

di Gianfranco Quaglia

Siamo i primi produttori europei di riso, grano duro, vino. Siamo anche al vertice Ue del biologico, con 80 mila operatori, abbiamo il maggior numero (316) di Dop/Igp/Stg (specialità tradizionale garantita), 5333 Pat (prodotti alimentari tradizionali), 526 vini Dop/Igp e 419 Doc/Docg. Quanto basta per dire che il Made in Italy è un primato incontrastato? Non proprio così. Perché il conflitto in Ucraina ha messo a nudo come l’Italia sia deficitaria su molti fronti per quanto riguarda il cibo, tanto da essere costretta a importare il 73% della soia, il 64% della carne di pecora, il 62% del grano tenero, il 53% della carne bovina, il 46% del mais, il 38% della carne di maiale e i salumi, il 36% dell’orzo, il 35% del grano duro per la pasta e il 34% dei semi di girasole, il 16% per latte e formaggi. L’analisi è di Coldiretti su dati del Centro Studi Divulga. I numeri sono impressionanti e ci pongono una domanda: ma allora parte di ciò che arriva sulle nostre tavole è veramente tutto made in Italy? Innanzitutto è un valore che significa un spesa alimentare pari a 144 miliardi l’anno. Ettore Prandini, presidente nazionale di Coldiretti, lancia un appello accorato: “Occorre colmare il nostro deficit agroalimentare a partire da quei settori dove siamo costretti a importare soprattutto a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che hanno dovuto ridurre di quasi un terzo la produzione di mais negli ultimi dieci anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su dieci. E’ urgente aumentare gli ettari coltivati e le rese, rendere più efficienti le filiere, puntando sull’innovazione tecnologica. Il rischio è anche l’abbassamento delle garanzie qualitative e di sicurezza degli alimenti, la trasparenza dell’informazione ai consumatori”.

 

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