Ci salveranno i fagioli, ma l’Italia ha perso la corsa

Ci salveranno i fagioli, ma l’Italia ha perso la corsa

di Enrico Villa

Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europe, in una recente intervista ha ricordato: nel 2050 in Africa la popolazione raggiungerà i 2 miliardi e mezzo. E il problema della fame in quel continente diventerà ancora più acuto, tanto che sarà indispensabile affrontarlo con metodi apparentemente nuovi, che tuttavia rammentano sistemi vecchi come il mondo. Anche José Graziano da Silva, direttore generale della FAO, agenzia alimentare dell’ONU con sede a Roma, in una sua relazione ha richiamato la necessità di moltiplicare la disponibilità di proteine vegetali per attenuare la sotto nutrizione delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo.

José Graziano da Silva ha infatti alluso alla moltiplicazione della coltivazione di fagioli, ceci, piselli, lenticchie riscoperte nella gastronomia occidentale, ma relativamente abbandonate come coltura non rendendosi conto che queste specifiche coltivazioni aiutano a perseguire due obbiettivi: migliorano i bilanci aziendali, e migliorano la rigenerazione dei terreni impiegati per altre colture. In Europa, negli Stati Uniti e in ogni paese evoluto dell’Occidente negli ultimi anni si sta assistendo ad un altro fenomeno negativo sostenuto dalle tecnologie della conservazione in scatola: il fabbisogno di legumi in proporzione alla domanda e all’export.

La FAO nei suoi bollettini periodici fa riferimento a questi stessi legumi contro la fame che proverebbero come la necessità di abbondanti nutrimenti sia presente in diversi angoli del Globo. Alla fine dell’anno scorso ad aprile, ribadendo la situazione precaria, la FAO ha fatto presente che al momento sulla Terra ci sono ancora circa 15 milioni di uomini e donne che non hanno superato il limite della fame, aggiungendo la necessità della creazione di un Fondo entro il 2030 con lo scopo di garantire cibo per le popolazioni indigenti. La questione, assai seria, viene affrontata con strumenti che si dovrebbero rivelare adatti nei prossimi anni. L’ONU con sua risoluzione di due anni fa ha dichiarato il 2016 l’anno internazionale dei legumi che è quasi passato inosservato nonostante con note condivise da quasi tutti gli aderenti alle Nazioni Unite sono state accettate tutte le caratteristiche positive degli stessi legumi: proteine in sostanziale sostituzione di quelle carnee e che si accompagna ai cereali e alle verdure; ricchezza delle vitamine A, C, E e di benefici sali minerali. Non solo: i legumi possono ben figurare nell’ambito degli alimenti compresi nella Dieta Mediterranea. Nelle sue pubblicazioni destinate ai propri iscritti, Coldiretti insiste per un ritorno sperabilmente massiccio ai legumi, motivandolo in questo modo: i numeri parlano chiaro, dal 2001 al 2016 la produzione mondiale di legumi è passata da 56 a 80 milioni di tonnellate di legumi secchi. Inoltre, la coltivazione dei legumi (fagioli, ceci, piselli, lenticchie, fave) favoriscono la riduzione di fitofarmaci e il greening cui tengono molto la UE e il Parlamento Europeo che si prepara – lo ha ricordato Tajani nella intervista richiamata – a dare un assetto più conveniente alla agricoltura nel quinquennio 2020-2025.

Ma predisposto da uno studio del Centro Studi di Confagricoltura, un bimestre fa è stato offerto – ed ha ancora validità – uno spaccato italiano, europeo, mondiale sui legumi nel mondo nel quale è stata sottolineata una più sana e razionale alimenazione. Fra i pregi del gruppo dei legumi, Confagricoltura indica anche questa motivazione: Nel caso di molti paesi, fra cui l’Italia, i legumi rappresentano inoltre un aspetto importante della tradizione gastronomica da valorizzare anche dal punto di vista turistico. Ed anche il Centro Studi dell’organizzazione agricola insiste su un aspetto che nobilita ancor più i fagioli e le altre essenze vegetali consimii, rendendole assai importanti da un punto di vista globali. E’ questo: a tal proposito è opportuno ricordare che i legumi sono un componente importante della Dieta Mediterranea, riconosciuta dall’Unesco patrimonio culturale immateriale dell’umanità nel 2010.

Lo studio di Confagricoltura conferma che cosa in Italia sia successo negli ultimi dieci anni per i legumi, miniere di proteine nobili e di sali minerali: una diminuzione sensibile delle coltivazioni, ad esclusione del pisello che tira sul mercato e che è destinato a finire in scatola in grande qualità. Lo stesso accade per le produzioni di legumi freschi anche di piselli, quindi con una domanda che richiede importazione intorno a 237 mila circa di tonnellate, però con numeri esigui per l’export di inscatolato gradito dall’estero che, appunto, anche in questo comparto è perseguito il made in Italy. Le ripercussioni in Italia si sono avute sui consumi pro-capite calcolati su una popolazione di 60 mila abitanti: nel 1961, 12,8 chilogrammi pro-capite dovuti alle abitudini alimentari che sono scese progressivamente, attestandosi dopo un decennio a 6 chilogrammi circa. La domanda, tuttavia, ha continuano ad essere vivace a causa della maggior consapevolezza sull’”alimento legumi” del consumatore nonché sui Dop e sulla IGP come a Cuneo, in Basilicata, Lazio, Veneto, Toscana, Umbria, Marche. Non è andata così in Europa dove le coltivazioni sono cresciute di oltre il 3%, negli USA di oltre sette volte rispetto al passato, o in Australi e Nuova Zelanda di otre 64 volte, in Africa di appena 5 volte, con una evidente diminuzione statistica in Estremo Oriente. I legumi che non abbiamo più in Italia, dove le colture sono diminuite del 21% circa, vengono dagli Stati Uniti, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda che rimpinguano le fabbriche alimentari di Italia, Spagna, Grecia, Romania, Francia, Inghilterra, paesi dell’Est

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