Basterebbe un catino per trattenere la goccia che manca ai campi

di Gianfranco Quaglia

Ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe. L’incipit della bellissima preghiera di Santa Teresa di Calcutta è risuonata come un monito durante la Giornata Mondiale dell’acqua, celebrata il 22 marzo, soprattutto per un richiamo all’eticità dell’uso idrico, degli sprechi, delle responsabilità e omissioni. Basti pensare che in Italia su 10 litri di pioggia nove vanno persi: 300 miliardi di metri cubi d’acqua cadono ogni anno, ma per le carenze infrastrutturali se ne trattengono solo l’11%. Mancano bacini e invasi, le cosiddette cassaforti d’acqua cui si potrebbe attingere nei momenti di forte criticità. Si preferisce soprassedere a queste possibilità addossando poi la colpa dello spreco all’agricoltura, dimenticando che oltre l’80 per cento dei cibo che arriva in tavola deve essere prodotto con l’acqua, salvo diverse alternative che per ora la ricerca sta sperimentando in tutti i settori, dalle carni ai cereali. Della mancanza di opere di contenimento si è parlato anche a Torino nel seminario organizzato dall’Associazione Idrotecnica Italiana, dove Confagricoltura, Regione Piemonte, Anbi (Associazione dei consorzi irrigui) hanno sottolineato la necessità dello stoccaggio delle acque. Il presidente regionale Confagricoltura Enrico Allasia ha ricordato che gli invasi aumenterebbero anche la disponibilità a uso idropotabile oltre a incrementare la produzione idroelettrica.

A margine di tutto ciò c’è una misconoscenza del problema idrico da parte dei consumatori. E’ emersa al convegno “L’acqua che non mangiamo”, organizzato da Regioni Piemonte e Valle d’Aosta insieme con l’Università di Torino. E’ quell’acqua utilizzata per produrre anche il cibo sprecato, segnale di un errato stile di vita. Dal sondaggio “young people & water”  effettuato tra gli studenti dell’Università, del Politecnico e di alcuni istituti superiori, emerge che solo il 28 per cento è a conoscenza del consumo virtuale dell’acqua, di quel water footprint, cioè l’impronta idrica, l’indicatore del consumo diretto e indiretto dell’acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, attraverso tutta la filiera. Qualche esempio soprendente:  chi l’avrebbe mai detto che per produrre un paio di jeans sgualciti e alla moda sono necessari 11 mila litri, e che una famiglia mediamente consuma 140 mila litri la settimana? Cifre che fanno riflettere.

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