Banche del terreno, in Italia 3,5 milioni di ettari inattivi

Banche del terreno, in Italia 3,5 milioni di ettari inattivi

di Enrico Villa

Il Consiglio Regionale del Piemonte ha recentemente varato la nuova legge sull’agricoltura. Prima in Commissione, poi in Consiglio con un consenso pressoché unanime, la legge regionale sull’agricoltura ha semplificato l’articolato che aveva visto la luce 40 anni fa. E la legge è stata adeguata alle situazioni moderne, sfrontandola da contenuti che avevano senso negli anni Ottanta, quando l’agricoltura regionale era impegnata tecnologicamente a rinnovarsi sia nella viticoltura, nell’orticoltura ma soprattutto nella risicoltura che con 100 mila ettari stabili e tante varietà di cereali occupa le quattro province di Vercelli, Novara, Alessandria, Torino e che ha svolto un intenso processo di meccanizzazione e di applicazione dei fitofarmaci, alcuni dei quali severamente regolati dalla mano pubblica , cioè da Amministrazioni regionali nonché dallo Stato attraverso i Ministeri della politica agricole, della Sanità e dell’ambiente. Ultimamente la Magistratura ha reso responsabili gruppi di agricoltori della morte di api e alveari, incolpandoli di avere ecceduto nell’uso di fitofarnaci considerati mortali per gli insetti.

Tuttavia, la nuova legge regionale sull’agricoltura presenta un alto aspetto importante per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio: anche in Piemonte, la istituzione delle banche del terreno che dovrebbero favorire i giovani agricoltori fino al qurantesimo anno di età perché attraverso i bandi dell’Ismea e di alte istituzioni possano ingrandire i loro fondi. Le banche del terreno sono previste da altre leggi agricole regionali come in Veneto, Toscana, Liguria, Lombardia, con a disposizione   fondi europei per 3 miliardi per sette anni che riescano a favorire appezzamenti per un valore di 2.000 euro.

L’acquisto sorretto da fondi nazionali ed europei dovrebbe raggiungere questo scopo: l’equilibrio territoriale molto frequentemente compromesso da terreni incolti e abbandonati, di sovente all’origine di alluvioni e di altri disastri del territorio. Affrontando la costituzione delle banche della terra, nel nostro Paese sono stati quantificati i terreni abbandonati e non utilizzati. Il risultato dell’indagine sui terreni incolti che potrebbero essere utilizzati, sorprende un po’. In Italia a disposizione da impiegare esistono 3,5 milioni di ettari, e di questi 380 mila ettari sono di proprietà di privati che potrebbero essere adibiti per coltivazioni in pianura o per pascolo. Le loro radici storiche sono nel latifondo istituito dai romani, consolidato nei secoli medioevali e, di fatto, abolito in Meridione nel 1835, quindi nella riforma agraria negli anni Cinquanta del Novecento. Secondo alcune stime esclusivamente dimostrative, una percentuale dei 50.000 agricoltori italiani attivi potrebbe con finanziamenti ambire ai terreni incolti. I dati a disposizione li abbiamo appena richiamati: specie nell’Italia centrale e in meridione 3,5 milioni di ettari di passare di proprietà con appezzamenti appunto del valore fino a 2.000 euro. In ogni caso, secondo gli standard europei, un fondo italiano per essere economico dovrebbe attestarsi circa sui 100 ettari (1 km quadrato) diversamente da quanto succede in Sudamerica dove la terra assume superfici diverse come fino agli anni Cinquanta del XX secolo era in centro Italia. Infatti in Brasile, dove intratteniamo intensi rapporti commerciali per i cereali e la carne, le aziende agricole hanno superficie di oltre 500 ettari ( 5 km quadrati) fino agli oltre 1.000 ettari (10 km quadrati). Evidentemente, il mondo brasiliano è molto diverso da quello europeo, e di questo si tiene conto esprimendo giudizi severi in relazione alle gande foreste e alle grandi aziende le quali sono accusate di essere la causa di squilibri geologici come sta adesso accadendo negli Stati Uniti e in Europa.

Variato il terreno incolto, in Italia non sarebbero cambiati di molto gli aspetti sociologici che riguardano il nostro Paese dove solo verbalmente sembra assicurata la fame di terra e la necessità di istituire banche della terra che continuano ad essere vive. Anzi, secondo alcune statistiche, in circa un secolo la situazione sarebbe rimasta immutata nonostante i bandi pubblici per sottrarre altri incolti al territorio. Infatti nel 1901, pochi anni dopo la inchiesta agraria nazionale di Stefano Jacini, i lavoratori in agricoltura erano il 64,71%, adesso rimasti il 64,9% al Nord e il 64,5% al sud. La migrazione interna dovuta alla industria e alle altre attività economiche, non ha, di fatto, spostato grandi masse di popolazione. E al di là dei provvedimenti di finanzamento ministeriali ed europei e del vantato desiderio di riscoprire in massa l’agricoltura da parte dei giovani ritornando alla attività agricola in Italia, circa 3,5 milioni di ettari continuano a rimanere inattivi sotto il sole, costante pericolo per i gli eventi disastrosi nei propri territori.

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