Quella visione di Leonardo e Cavour

Quella visione di Leonardo e Cavour

leonardocavourQuesto che sta per terminare, il 2019, è stato l’anno dedicato a Leonardo da Vinci, nel cinquecentesimo della morte. A genio vinciano si devono anche opere idrauliche e d’irrigazione che, sotto il Ducato di Milano, segnarono una svolta in agricoltura e in particolare diedero inizio alla coltivazione del riso. Di Leonardo si è parlato e dibattuto in più convegni. Noi vogliamo riproporre alcuni stralci di una relazione, quasi una lectio magistralis, che l’ambasciatore Luigi Guidobono Cavalchini ha tenuto il 3 ottobre alla Villa Cavour di Santena (Torino), durante un convegno organizzato dall’Ordine dei Giornalisti del Piemonte e dalle associazioni d’irrigazione Est e Ovest Sesia, dal titolo “Leonardo e Cavour: la visione del cambiamento”.

di Luigi Guidobono Cavalchini *

Non è certo impresa di tutto riposo parlare di due personalità che, pur avendo vissuto in epoche tanto lontane tra loro, hanno incarnato in modo esemplare l’ideale dell’uomo del Rinascimento e del genio: impossibile non rimanere affascinati dalla loro instancabile e spasmodica voglia di analisi delle cose e di tradurre le tante osservazioni fatte in una serie infinita d’azioni tese ad accrescere il loro sapere e l’efficacia dei loro comportamenti in funzione, per l’uno, dello stretto rapporto tra Arte e Scienza e, per l’altro, del profondo convincimento che i tempi erano maturi perché dal moto risorgimentale potesse nascere un nuovo soggetto internazionale non soltanto politico ma anche all’avanguardia in Europa per i progressi nei campi del vivere insieme e dell’economia.

L’obiettivo che mi sono proposto non è tanto, dunque, quello di passare ad illustrarVi di Leonardo da Vinci i risultati di un’attività artistica considerata dal Vasari “tanto divina… che “si fa conoscere per cosa largita da Dio e non acquistata per arte umana”; e di Cavour la condotta degli affari di Stato del Regno di Sardegna alla luce di quella insidiosa domanda “Que puis-je faire pour le Piémont et l’Italie?” rivoltagli, all’epoca della guerra di Crimea, dall’Imperatore dei francesi.

Oggi, invece, parlerò di Leonardo da Vinci come botanico, della sua attenzione verso una gestione ottimale delle risorse idriche e, infine, dell’apprezzamento che seppe dimostrare per una cultura del buono e del ben mangiare; mentre, per quanto riguarda Camillo Benso di Cavour, mi sembra interessante ragionare sul percorso da lui compiuto da una visione giovanile di un’agricoltura tradizionalmente improntata a spirito pratico e, in ultima analisi, all’interesse per un sollecito guadagno alla maturazione di un intento, conseguito attraverso la conoscenza di metodi di produzione utilizzati in altre parti del Vecchio Continente, di voler mettere l’agricoltura dell’Italia al passo con quella di altre Regioni d’Europa più tecnologicamente mature.

Da osservatore attento di tutto ciò che si muove attorno a noi e, quindi, da ricercatore spinto da un desiderio quasi morboso di dare una spiegazione plausibile ai fenomeni della natura Leonardo – è stato detto – fu precursore anche in botanica: non “tirava ad indovinare” ma indugiava testardamente in quell’attenta minuziosa osservazione che dava stura ad un ragionamento stringato sostitutivo, almeno in parte, di strumenti e metodi tecnologicamente avanzati e che, soltanto qualche secolo dopo, sarebbero stati a messi a disposizione degli scienziati.

Egli non si perdeva certo d’animo in questa sua spasmodica voglia di conoscere e di sapere, anche se, forse in uno di quei momenti di scoramento che comprensibilmente gli si presentavano, faceva stato delle maggiori difficoltà incontrate nel “intendere l’opere di natura” a fronte di “un libro di un poeta”! E nell’intreccio dei temi – dall’arte alla scienza, dalle invenzioni ai progetti architetturali e ingegneristici – non poteva mancare in lui né la botanica né l’idraulica, intese l’una e l’altra come parte integrante di quel vasto mondo che è la natura. Così, a giusto titolo com’è stato detto, Leonardo fu “primo botanico moderno” e “primo ecologista della storia”.

Anzitutto, a lui spetta il merito d’avere scoperto che le foglie sui rami non sono disposte in modo casuale ma secondo rigorose leggi matematiche che rispondono anche alla necessità d’evitare quella sovrapposizione che non consentirebbe loro d’approvvigionarsi di luce e, quindi, di vivere. Le leggi matematiche su questo tema saranno formulate in maniera rigorosa soltanto nel XIX secolo sulla base, appunto, delle intuizioni che aveva avuto Leonardo.

Ma la scoperta più importante fatta da Leonardo in ambito botanico è ascrivibile al percorso da lui individuato nelle acque che dal suolo ed attraverso le radici delle piante giungono ai tronchi e ai rami: osservazione, questa, che porterà molto più tardi all’elaborazione di una legge scientifica, quella della linfa ascendente e discendente. Ma ciò che mi sembra interessante dire è che, proprio intuendo il lavoro anche attivo e non semplicemente passivo compiuto dagli alberi nel favorire lo scorrere della linfa al loro interno, a Leonardo spetta il merito d’avere posto le basi della cosiddetta “coltura idroponica”. Si era accorto, cioè che, togliendo la terra e mettendo direttamente nell’acqua la pianta, quest’ultima continuava a vivere e a crescere seppure lentamente.

Come non ricordare, poi, che dall’osservazione degli anelli nei tronchi il nostro artista dedusse che da essi si poteva determinare l’età delle piante?

Ma non è tutto. Dai disegni e dagli scritti giunti fino a noi apprendiamo che Leonardo si dedicò, lungo tutta la sua vita, agli studi dell’idraulica a cominciare dai suoi primi soggiorni a Milano e in Lombardia. Più precisamente, progettò di collegare ai Navigli interni il Naviglio Martesana con l’intento, attraverso la costruzione di due chiuse dotate di portelli per regolare la portata delle acque, di realizzare l’attraversamento in barca di Milano. A lui si deve anche la progettazione commissionatagli da Ludovico il Moro della roggia Mora che staccandosi dal Sesia nel Novarese confluisce in Lomellina. Nel suo soggiorno a Venezia, poi, si era proposto come obiettivo quello di rendere navigabile il Brenta, oltre a cercare di mettere a punto gli strumenti più idonei ad evitare le inondazioni.

Ma alcuni dei suoi progetti idraulici contemplavano la deviazione dei fiumi. Uno di questi progetti, che era piaciuto molto a Macchiavelli, prevedeva una modifica del corso dell’Arno non soltanto in funzione di un suo sbocco diretto nel mare ma, anche e soprattutto, per privare i pisani, acerrimi nemici dei fiorentini, d’usufruire delle relative acque!

Inoltre, durante il suo soggiorno romano, Leonardo aveva ipotizzato la bonifica delle Paludi Pontine, realizzata poi, come sappiamo, nel secolo scorso. E a proposito della sua non certo tranquilla attività nella capitale papale a causa anche dei cattivi rapporti con Michelangelo, vorrei ricordare le lamentele che Leone X gli indirizzava proprio a causa dei tempi biblici da lui impiegati nel realizzare le opere artistiche commessegli e legate, soprattutto, alle intere giornate passate a mescolare intrugli fatti di petali di fiori e di foglie per dare sempre maggior luminosità ai suoi paesaggi! Sia detto qui per inciso ma le opere come la Gioconda, portate da Leonardo in Francia nel maggio del 2017 quando Francesco I gli aveva dato ospitalità nel Castello di Clos-Lucé fregiandolo del titolo di “premier peintre, architecte et mécanicien du Roi”, necessitavano per l’autore ulteriori ritocchi: cosa comprensibile se si tiene conto di quell’amore per la perfezione che per Leonardo non aveva termini temporali. E fu così – aggiungo io – che oggi è il Louvre a ospitare Monna Lisa del Giocondo!

Come per tutti i fenomeni del creato, Leonardo aveva cercato di comprendere la vera natura dell’acqua indugiando nei suoi scritti sulle origini e la dinamica ( concludendo che con il tempo tutta la terra sarebbe stata invasa dall’acqua) ; indugiando, poi, sugli effetti ottici provocati dalla luce solare sulle superfici dei mari e, ancora, sulla schiuma prodotta cadendo ricca d’una certa quantità d’aria. Ma è pur vero che queste osservazioni, suscettibili d’essere considerate banali se non superflue agli occhi dei più, erano state alla base di studi approfonditi di fluidodinamica sfociati nella progettazione di macchinari per utilizzare al meglio l’energia idraulica, per favorire le bonifiche delle paludi e per provocare l’innalzamento del livello delle acque.

Da ultimo vorrei intrattenerVi per pochi istanti su un altro aspetto della personalità di Leonardo: in primis quella sua predilezione per le vigne ed il buon vino che aveva suggerito a Ludovico il Moro durante i tre anni dell’elaborazione dell’Ultima Cena di regalare all’artista, nel cortile della Casa degli Atellani di Corso Magenta a Milano, un vigneto. Dagli scritti giunti sino a noi possiamo percepire quanto questa donazione – fatta quale forma di pagamento dell’affresco di Santa Maria delle Grazie – risultasse gradita a Leonardo proveniente da una famiglia di vignaioli toscani che l’aveva iniziato fin da ragazzo a coltivare la vite e ad apprendere tutti i segreti della vendemmia e della vinificazione. La grande sua passione per il vino, tuttavia, non gli aveva impedito di sviluppare anche il senso della moderazione rispecchiato nella seguente sentenza: “e’l vin sia temprato, poco e spesso, non fuor di pasto, né a stomaco vuoto”. Ancora, in una lettera dell’ottobre 1515 con la quale manifestava all’amministratore dei possedimenti familiari in Toscana il rammarico per “le quattro ultime caraffe” di Malvasia inviategli, dava consigli precisi sul modo di concimare e sui processi di trasformazione necessari per non disperdere le proprietà organolettiche del prodotto. E concludeva il suo scritto osservando che “si voi et altri faciesti senno di tali raggioni berremmo vino eccellente”!

Passiamo ora a Cavour: andava orgoglioso – e se ne compiaceva apertamente – d’essere considerato un “ valente agricoltore”. La sua grande passione coltivata fin da giovane per i prodotti della terra e, in particolare, per il riso, per l’irrigazione e per l’idraulica s’era sviluppata soprattutto a Trino nella Tenuta di Leri, appartenuta a suo padre e divenuta più in là nel tempo un rifugio, un’oasi di pace nei momenti in cui il fervore politico era diventato predominante e necessitava distensione e riposo.

Per la verità, l’esperienza condotta nelle Langhe – di Grinzane era diventato Sindaco – aveva finito per fungere da preambolo rispetto a quella affinata a Leri a cominciare dalla fine degli anni trenta del XIX secolo. Ed è proprio misurandosi con le tematiche poste dall’amministrazione di una grande Tenuta, quale era quella del Vercellese, che Cavour si formò sul terreno delle tante piccole e grandi cose concrete: un’esperienza, questa, rivelatasi provvidenziale per il futuro statista deciso a perseguire l’obiettivo, sintetizzato nella seguente sua frase, d’esercitare “ une véritable domination sur une population agricole”. Una palestra, quella di Leri, – aggiungo io – che già prefigurava quell’ esercizio che sarebbe servito a forgiare il carattere di chi negli anni cinquanta si sarebbe assunto l’impegno di conseguire l’unità d’Italia.

Nella partecipazione alla conduzione delle aziende familiari – a Leri il riso, a Grinzane il vino e a Santena la zootecnia – Cavour, intento ad ammodernare l’agricoltura della penisola, aveva fatto molti esperimenti concernenti la concimazione, le tecniche di vinificazione e gli allevamenti del bestiame (questi ultimi con la correlata praticoltura).

Anche lui al pari di Leonardo era un creativo. Interessante al riguardo – sempre per restare nel campo dell’agricoltura – era il suo caparbio impegno per associare il capitale al lavoro: visione considerata all’epoca avveniristica se non rivoluzionaria e che ebbe come punto di ricaduta l’associazione nella gestione dell’Azienda vercellese di Giacinto Corio, uomo dotato di competenze ed esperienze specifiche estese che lo mettevano in grado di tradurre nella pratica e d’integrare quelle idee e quelle conoscenze teoriche che Cavour andava maturando non soltanto attraverso le letture ma anche e soprattutto nel corso delle sue frequenti peregrinazioni nella Franche-Comté, nel Delfinato, nella regione di Bordeaux, in Inghilterra, nei Cantoni svizzeri con particolare riguardo, dati i legami familiari, nel Cantone di Ginevra.

Di qui, dunque, come ho detto, la decisione illuminata e direi precorritrice dei tempi d’entrare in società con il Corio dietro il corrispettivo d’una partecipazione agli utili della Tenuta di Leri. Ma ciò che m’interessa di sottolineare qui stamane è quel idem sentire tra i due che aveva come tratto essenziale quella ricerca dell’eccellenza attraverso l’innovazione propria dell’ Uomo del Rinascimento italiano. William de la Rive ha scritto che Cavour, lungi dall’accontentarsi d’impartire direttive generiche, preferiva invece entrare nei particolari anche minimi; un po’ – aggiungo io – come usava procedere Leonardo nei suoi studi d’anatomia. E il de la Rive, giornalista svizzero e suo assiduo frequentatore in forza di lontani legami familiari, aggiungeva che il futuro Tessitore, sempre attento a cogliere le novità dovute a scoperte nel campo della chimica e a progressi nella meccanizzazione agricola, moltiplicava gli esperimenti prevedendone i risultati con un buon senso quasi infallibile!

Il tenace tentativo di creare in Italia le condizioni per portare l’agricoltura della penisola al passo con quelle dei Paesi europei più avanzati e, quindi, a renderle concorrenziali con queste ultime aveva trovato concreta attuazione agli inizi degli anni cinquanta nella costituzione dell’Associazione d’Irrigazione all’Ovest del Sesia. Due erano i pilastri di questa nuova iniziativa: da un lato, si trattava di potenziare le colture, di stimolare la migliore utilizzazione della risorsa idrica anche attraverso uno sforzo di risparmio e di sistemare i terreni da destinare alla produzione del riso mediante l’affitto delle acque demaniali e la conseguente destinazione di queste ultime soltanto agli associati; dall’altro, veniva assicurata la proprietà sociale delle acque vive sovrabbondanti e delle colature post-irrigatorie.

In sostanza, si dava vita ad un sistema irriguo integrato che permetteva altresì di gettare con molta lungimiranza le basi di un potenziamento di quest’ultimo riprendendo un disegno – peraltro abbozzato già negli anni quaranta – i migliorare notevolmente i flussi dell’irrigazione attingendo alle acque del Po e della Dora Baltea.

Brevemente ricordo che il Canale Cavour – quel corso d’acqua artificiale che prendendo origine dalla sponda destra del Po raggiunge il Ticino dopo aver attraversato il Novarese e il Vercellese –aveva formato l’oggetto di lunghissimi e minuziosi studi ai quali s’erano applicati con passione, su impulso di Cavour, l’ingegnere demaniale Carlo Noè e l’agrimensore Francesco Rossi. Era stato proprio quest’ultimo a redigere quel piano di fattibilità, poi ampiamente rimaneggiato nel 1852, destinato a scontrarsi a difficoltà di realizzazione di diverso ordine, politico e finanziario, prima di formare l’oggetto nel 1862, ad un anno dalla morte di Camillo Benso di Cavour, d’una approvazione da parte del Parlamento del Regno d’Italia.

Per concludere su questo punto, vorrei riassumere brevemente ciò che pensava il Conte di Cavour   quando passeggiando lungo le risaie del Vercellese con “un immenso bastone tra le mani e con un enorme cappello di paglia in testa” tornavano alla sua memoria gli studi compiuti per meglio comprendere la composizione dei letami e la funzione delle stalle; e parlava, allora, di una certa comprensibile ripugnanza che quasi in maniera automatica si trasformava da “dégout” – sono sempre parole sue – in un interesse crescente per l’agricoltura destinato a sfociare poco a poco in “fascino insospettabile”. E’ stato scritto – e qui mi fermo – che a Cavour, il principale artefice dell’unità della nostra penisola, stava soprattutto a cuore, più che l’unificazione, la modernizzazione politica ed economica del paese e, più precisamente, l’instaurazione di uno stato liberale e di un’economia di mercato sul modello inglese. In sintesi, sapeva guardare lontano al di là dei confini senza incappare in sterili avventure e senza coltivare sogni rivoluzionari. Proprio da questa mia sintesi pur tra le sue lacune e le sue dimenticanze, ci può forse fare comprendere come il lavoro dei campi a Grinzane, a Leri e a Santena sia stata per Cavour una palestra per ben altre avventure.

  • Già ambasciatore a Parigi e rappresentante permanente per l’Italia a Bruxelles

You must be logged in to post a comment Login