Ma il Covid-19 non ferma la “fabbrica del cibo”

di Gianfranco Quaglia

C’è una “fabbrica del cibo” che non si ferma, non si è mai arrestata neppure durante la guerra. E se questa del coronavirus è considerata una guerra, a maggior ragione la gente dei campi è in prima linea.

Durante il secondo conflitto mondiale l’agricoltura fu determinante nello sfamare gli italiani. Non solo: la vita rurale salvò migliaia di sfollati dai bombardamenti, alimentando un legame città-campagna che si è protratto dal dopoguerra sino ai giorni nostri.

 Ai tempi del coronavirus rappresenta sempre una certezza, dietro le quinte di una battaglia quotidiana combattuta in città con le mascherine, l’amuchina, i presidi sanitari, il fronte degli ospedali. La gente dei campi (imprenditrici e imprenditori) è un esercito silenzioso, che non si vede ma c’è, in questi giorni dominati da incertezze, paure, psicosi. Se nel nostro Paese riusciamo a fare la spesa, ad approvvigionarci di cibo, lo dobbiamo a quelle 740 mila aziende agricole, 70 mila imprese di trasformazione alimentare e alla capillare rete di distribuzione (negozi, supermercati, discount, mercati). Una filiera che dai campi alla tavola vale 538 miliardi di euro, pari al 25% del Pil, con 3,8 milioni di persone per garantire la “food security”, la sicurezza alimentare.

Questa macchina del cibo, soltanto in Piemonte – come ricorda Ercole Zuccaro direttore di Confagricoltura – soddisfa le esigenze dei piemontesi che ogni giorno consumano 1.105.000 chilogrammi dicarne, 728.000 litri di latte, 2.720.000 uova, 3.670.000 chili di pomodori freschi e trasformati, 804.000 chili di frutta e 486.000 litri di vino. Numersi che resituiscono il quadro di un’attività incessante, impegnata a lavorare a pieno ritmo, rispettando tutti i procolli in magteria di igiene e sicurezza sul lavoro.

 

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