Il mondo contadino che ispirò le favole di Gianni Rodari

di Gianfranco Quaglia

Il 14 aprile è ricorso il centenario della nascita di Gianni Rodari, il poeta-scrittore-giornalista del lago d’Orta noto per le sue poesie e filastrocche. Dopo Collodi con “Pinocchio” le sue favole sono senza dubbio le più lette e conosciute. E di un’attualità disarmante. A un secolo di distanza, stante Coronavirus che impedisce ogni celebrazione ufficiale, è bello ricordare che molti dei suoi scritti e dei personaggi da lui creati hanno uno stretto legame con il mondo della terra. A cominciare da “Il romanzo di Cipollino”: per idearlo e scriverlo l’autore si immerse nella campagna emiliana, facendosi ospitare da un contadino amico. Raccontava: “Presi un mese di vacanza, il contadino sgombrò il granaio per mettermi un letto. Fu un mese bellissimo, le figlie del contadino mi chiamavano la mattina presto e mi ricordavano che ero lì anche per lavorare, non solo per dormire. Scrivevo quasi tutto il giorno, in camera, in cortile o in cucina, con la macchina su una sedia e intorno sempre un po’ di bambini a guardare quello che facevo. Quando arrivai a pagina cento la moglie di Armando (il contadino) fece la crescente, o gnocco fritto, furono stappate delle bottiglie…”. Immaginiamo di Lambrusco, da quelle parti. Ma poco importa: da quelle parole emerge un quadro rurale straordinario. Il rapporto di Rodari con la gente dei campi è un filo conduttore della sua vita. Gli piaceva ricordare che quando scriveva per “Paese Sera” ogni giorno faceva il giro dei mercati rionali di Roma, conversava con le massaie e i venditori davanti alle bancarelle di frutta e verdura, perché era lì che scopriva i tanti problemi della borsa della spesa e prendeva corpo la notizia sulla forbice dei prezzi origine-consumatori. 

E nella poesia “Colori dei mestieri” scrisse: “Sa d’olio la tuta dell’operaio, di farina il fornaio, sanno di terra i contadini…”.

 

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