Il Fattore K mette alla prova il borsista ricercatore in risaia

di Gianfranco Quaglia

I millennials, cioè i giovani della generazione Y, probabilmente ignorano quale sia il significato di Fattore K, una locuzione abusata alla fine degli anni ’70 quando Alberto Ronchey la inventò per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche al governo, un’alternanza – disse il famoso giornalista – impedita dalla forte presenza del partito comunista che non riuscì ad andare al potere e consegnò alla Dc il comando dell’Italia. Ci provò anche nel ’94 ma la maledizione del Fattore K colpì un’altra volta e arrivò Berlusconi. In seguito toccò a D’Alema, durò un anno e mezzo, infine fermò anche Bersani.

Tempi lontani. Del Fattore K non si parla più. A qualcuno capita di trovarlo sulla sua strada, ma si tratta di tutt’altra cosa. L’Ente Nazionale Risi, che si occupa di ricerca sul riso attraverso il Centro di Castello d’Agogna (Pavia), ha emanato un bando per il conferimento di una borsa di studio della durata di 24 mesi da assegnare a un neolaureato per lo “studio dei residui di alcuni principi attivi impiegati per la difesa del riso nella pianta e in alcuni comparti ambientali e valutazione di tecniche di pacciamatura per la coltivazione del riso con metodo biologico”. Necessario il possesso di diploma di laurea afferente alla classe delle lauree in scienze tecnologie agrarie e forestali e laurea magistrale. Scadenza delle domande 31 agosto 2017. Durata due anni, retribuzione 36 mila euro lordi. Il Fattore K emerge nella domanda di ammissione alla selezione quando, appunto alla lettera k, il candidato dichiara di “essere disponibile ad effettuare i rilievi in campagna, senza porre pregiudiziali relativamente al clima, di essere disponibile a effettuare attività fuori sede”. E prosegue alla lettera l: “Di essere disponible a lavorare tutti i mesi dell’anno, con eventuali turni di riposo da concordare in base alle esigenze della ricerca”.

In questo caso il Fattore K non richiede nessuna appartenenza politica, ci mancherebbe. Ma disponibilità assoluta a lavorare in condizioni  meteo anche avverse (caldo, pioggia, nebbia) perché la ricerca non si sviluppa soltanto in laboratorio, davanti al microscopio o a un analizzatore. Nella situazione specifica occorre scendere anche in risaia, muniti di stivali e cappello di paglia. Condizione non trascurabile, per chi vuole intraprendere l’attività, meglio la missione del ricercatore, lontana chilometri dallo stereotipo di chi la identifica con i colletti bianchi.

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