C’è qualcosa di troppo nel riso: a cominciare dal numero di varietà

di Gianfranco Quaglia

L’aggettivo che balza subito all’occhio è uno solo: eccessivo. L’avverbio da utilizzare: troppo. “Too much” direbbero gli inglesi. Stiamo parlando di riso, entrato nella fase finale dell’annata. Raccolta in pieno svolgimento, prime stime ottime. Ma si guarda al mercato. Ed è qui che nascono i problemi. La superficie è aumentata di 7.700 ettari, tendenza che soddisfa almeno in parte le richieste dell’industria di trasformazione e dei consumi, con un + 24% dei risi cosiddetti tondi (soprattutto da risotto, quindi destinati al mercato interno) e questo balzo potrebbe riflettersi sui prezzi. Poi c’è il capitolo delle importazioni: un record nell’Ue, con un 110% in più di riso Japonica lavorato (il medesimo coltivato in Italia) proveniente dall’Asia; addirittura +451 per cento di semigreggio rispetto al 2018. Percentuali abnormi e insostenibili, con il Myanmar primo paese concorrenziale per il riso lavorato. L’Italia chiede l’applicazione della clausola di salvaguardia, così come è avvenuto per il riso tipo Indica, ma finora inutilmente.

Sul fronte degli eccessi esiste poi un altro aspetto, forse poco considerato dai risicoltori. Al contrario fortemente scandagliato dalla ricerca: il numero di varietà coltivate. Sono ben 167 in Italia, alle quali si aggiungono altre 66 ancora in fase di iscrizione. Filip Haxhari, direttore del Dipartimento miglioramento genetico del Centro Ricerche Ente Risi, riflette su questi numeri: “Forse sono un po’ troppe, occorre puntare sulla qualità più che sulla quantità. Dove finiscono tutte queste varietà? I mercati stranieri chiedono stabilità, rischiamo di perdere la faccia. La ricerca ha anche il compito di guidare il mercato, non di subirlo”.

 

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